«Una perfetta contraddizione
è altrettanto misteriosa per i savi
che per i pazzi» (Mefistofele, Faust I)
Proviamo ad entrare in San Vitale o in Sant'Apollinare in Classe, entrambe in Ravenna, nel momento centrale della funzione solenne. Stretti dalla folla veniamo a prendere posto nella navata centrale guidati dalla voce fuori campo dell'esperto predicatore che usa i mosaici per supportare con immagini ed esempi la predica, e poi i cori, l'incenso dato senza risparmio (l'incenso non è proprio buonissimo ma in grandi quantità anche lui fa) ma principalmente la luce. La luce che entrando dalle aperture nei muri fa incendiare l'oro dei mosaici avvolgendo tutto in una luce ultraterrena. Oro e stupore che ci proiettano in uno spazio altro, assoluto, puro e quindi non paesaggistico, non umano. «Questo opulento apparato, di un'enfasi cromatica inaudita (e che fu propria probabilmente anche degli edifici civili, come mostrano le posteriori realizzazioni islamiche) era rincalzato per ogni dove dalle oreficerie, dalle stoffe operate e dai ricami policromi». (C.L. Ragghianti, Arte bizantina e romanica, G.Casini Editore, p.229).
Per tutta la durata dell'avvenimento lo spazio della chiesa supera le antinomie per divenire un luogo chiuso ma non finito, secondo la felice definizione di Rosario Assunto, caricandosi di significati e valori. La durata dell'avvenimento, come un Evento, apre una parentesi nel fluire del tempo-cronos consentendo la fuoriuscita degli spettatori dalla rigida concatenazione degli eventi.
Si riproduce collettivamente l'esperienza narrata da Dante nel Paradiso della Divina Commedia dove, immerso nella luce divina, il poeta non ha i supporti dello spazio e del tempo e sente venire meno anche le possibilità del linguaggio con le sue concatenazioni logiche, le gerarchie costruttive e il suo sviluppo lineare e progressivo. La stessa esperienza di Meister Eckhart quando afferma che «Tutte le cose hanno un perché ma Dio non ha un perché» e di Nicola Cusano quando a proposito del murus coincidentiae sive absurditatis ricorda che Dio è la coincidenza dei contraddittori.
Gli archetipi così richiamati attraversano, per arrivare fino a noi, la storia dell'arte e la storia delle religioni. Dio pose un giardino in Eden, ci ricorda la Bibbia, lo popolò di tutti gli animali che vivevano in pace tra loro, lo dotò di tutti i fiori e di tutti i frutti in una perenne primavera. E Adamo, signore e padrone di tutto, non doveva fare altro che vivere una eterna prima stagione della sua vita provando un gioioso stupore nella infinita scoperta delle infinite bellezze del creato al riparo dalla corruzione del tempo-cronos. Il giardino non poteva non essere oltre quella mandorla d'oro da cui scaturiva Cristo che stabiliva il confine tra l'umano e l'oltre, lasciando intuire tramite il materiale incorruttibile la condizione altra. La luce della divinità sarà questa nelle icone, nelle natività e nei quadri del Beato Angelico.
Per ritrovare un luogo del genere sarà necessario arrivare all'inconscio freudiano dove avviene il superamento dello spazio e del tempo mediante la fine della logica delle concatenazioni. Non più questo è causa di quello e neanche questo precede o genera quello. Qui c'è l'assenza di reciproca contraddizione o negazione e al posto del nesso logico la simultaneità. Anche le nozioni freudiane di spostamento e condensazione si riferiscono ad un pensiero altro alla logica bivalente e generano una geometria spaziale perlomeno insolita:
«Tutte queste persone [...] si nascondono dietro il personaggio Irma, che diventa così un'immagine collettiva con tratti peraltro contraddittori. Irma diventa la rappresentante di queste persone, sacrificate nel corso di lavoro di condensazione, in quanto faccio capitare a lei ciò che mi ricorda volta a volta ciascuna delle altre. Ai fini della condensazione posso crearmi una persona collettiva riunendo i tratti attuali di due o tre persone in una sola immagine onirica. [...] Qui ho applicato il procedimento in base al quale Galton ottiene i suoi ritratti di famiglia, proiettando le due immagini una sopra l'altra, per cui i tratti comuni spiccano più netti, mentre quelli che non concordano si cancellano a vicenda e risultano nel quadro indistinti» (Interpretazione dei sogni, 1899, Opere, III, pp.271-272).
Anche la caratteristica dell'assenza di tempo nell'inconscio viola il pensiero ordinario. Freud insiste che «i processi del sistema Inc sono atemporali, e cioè non sono ordinati temporalmente, non sono alterati dal trascorrere del tempo; non hanno insomma alcun rapporto con il tempo» (L'inconscio, 1915, Opere, VIII, pp. 71). La volata dei Surrealisti è stata lanciata.
Bergson affianca la durata reale, cioè la successione di stati qualitativi della coscienza, al tempo spazializzato, ritenuto cioè una successione indefinita di istanti omogenei, dando alla memoria il ruolo di essenza stessa della vita spirituale di un individuo. E a Bachelard, in uno dei passi più belli dei suoi scritti, spetta gettare il ponte tra la fenomenologia e la rêverie poetica: «Per vivere in questa atmosfera di altri tempi (...) dobbiamo ritrovare il nostro essere sconosciuto, somma di tutto l'inconoscibile di un'anima infantile. Quando la rêverie va così lontano, ci meravigliamo di essere stati proprio quel bimbo. Esistono ore del'infanzia in cui ogni bambino è l'essere che si stupisce, l'essere che realizza lo stupore di essere. Scopriamo così in noi una infanzia immobile, una infanzia senza divenire, liberata dai meccanismi del calendario. Allora, non regna più sulla memoria né il tempo degli uomini né quello dei santi, giornalieri del tempo quotidiano, che segnano la vita del bambino solo col nome dei genitori, ma è il tempo delle quattro divinità del cielo: le stagioni. Il ricordo puro non ha data. Ha una stagione. La stagione è il marchio fondamentale dei ricordi. C'era il sole o il vento in quel giorno indimenticabile? Ecco la domanda che dà la giusta tensione di reminiscenza. Allora i ricordi delle grandi immagini ingrandite, ingrandenti. Sono associati all'universo di una stagione, di una stagione che non inganna e che si può chiamare la stagione totale nell'immobilità della perfezione» (G. Bachelard, La poetica della rêverie, Dedalo libri, 1960, p.127).
A sostenere Bachelard quando parla del balbettio del cogito e della sospensione della ostinata saggezza della materia interviene anche il folklore con una delle più belle storie leggende mai tramandate a proposito della notte di Natale. Il cristianesimo aveva trasformato il tempo ciclico dei Greci rendendolo lineare e progressivo e dotandolo di un inizio, la creazione, e una fine, il giudizio universale. Al centro esatto di questa linea ideale si colloca la nascita di Cristo. E nel momento della nascita, dice la leggenda, il tempo ha operato una conversione da il tempo necessario per arrivare alla nascita a il tempo che manca alla fine del mondo. In questa conversione il tempo si è fermato. E tutto il mondo si è fermato. Il presepe ci ricorda questo istante di immobilità svincolata dalla successione: si ferma la stella cometa, si fermano i pastori, si ferma il respiro del bue e dell'asinello, si fermano tutti i testimoni cristallizzati nello stupore dell'Evento.
Magari non è successo ma, come direbbe Levi-Strauss, è buono da pensare che lo sia.
Baudelaire ci ha spiegato ed insegnato a gustare la sensazione di nostalgia per luoghi che non abbiamo mai visto o addirittura non esistono, ci ha insegnato a centellinare come assenzio il desiderio doloroso di un tempo e di uno spazio che non abbiamo mai abitato. Sempre un poeta, Coleridge, ci ha fatto capire, prima di Bateson, che in determinate situazioni (rito, gioco, spettacolo, amore, estasi...) noi pratichiamo una volontaria sospensione della credulità. Il luogo dove oggi noi crediamo coincidano gli opposti, dove giocosamente ci facciamo affascinare dall'impossibile, dove cediamo alla piacevolezza dell'invito alla nostalgia dei un passato/futuro è la pubblicità. La pro-messa contenuta nella messa bizantina è divenuta il messa-ggio di speranza della comunicazione pubblicitaria. E i pubblicitari sono coscienti di ciò, come dimostra Seguela: «Qual è il minimo comune denominatore tra un flacone di Dior, una fiaschetta di Perrier e una bottiglia di Ricard? Le loro radici. Il contenitore è diverso, ma il contenuto resta lo stesso: pezzi della nostra anima. Là risiedono le nostre forze per riuscire nel domani. Solo il popolo che saprà costruire il proprio avvenire sul suo passato ha la possibilità di creare un futuro dal volto umano». (J. Seguela, Fils de Pub, Flammarion, Paris 1983, p. 71).
La stessa Modernità che, con i ritmi incalzanti del suo rinnovamento e con la distruzione delle tradizioni, ci rende tutti precari, però ci dà anche gli strumenti tecnologici per far sì che la reviviscenza del passato ci garantisca un avvenire. Questo sono gli effetti speciali digitali che ci consentono di vedere Forrest Gump che sussurra confidenzialmente all'orecchio di Lyndon Johnson qualcosa sulla ferita al gluteo rimediata in Vietnam ma, ancora di più, Humphey Bogart e Louis Armstrong che bevono insieme Coca Cola in un night e l'indimenticabile Giovanni Rana impettito sul palco della piazza Rossa assistere alla sfilata commemorativa della rivoluzione bolscevica d'Ottobre.
Come una religione (o un'arte) del nostro tempo, la pubblicità ci offre l'alterità sognata nella rêverie del poeta, ci realizza il desiderio di scoprire il paradiso terrestre. In questa ricerca di una alterità ideale, l'immaginario getta un ponte, quello delle speranze, in avanti, e lo fa prendendo energia dalla fonte delle immagini originarie.
Le immagini digitali della campagna pubblicitaria del Mulino Bianco ci raccontano tanto quanto le chiese bizantine dello slancio di desiderio di una società in cerca di cambiamento che affida la propria aspirazione al divenire, alla coscienza utopica. I sogni, ci avverte Ernst Bloch, non possono essere ridotti soltanto al ritorno di uno psichismo del passato: la loro dinamica li inserisce in un meccanismo di apertura e di invenzione che offre la rivelazione di un pre-apparire.
Roma 22 Settembre 2003