La Critica

VT versus TV. Tecnologie e condivisioni

di Alessandra Cigala

Testo redatto in occasione del Forum Internazionale Documentazione e Linguaggi del Contemporaneo «L'esperienza dell'arte. Il sentire contemporaneo tra immagine, suono, informazione, trasmissione», PAN, Palazzo delle arti di Napoli, 17-19 dicembre 2009.

VT versus TV è stato un efficace slogan, elaborato, tra la fine degli anni sessanta e l'inizio degli anni settanta, da una generazione che vedeva nell'introduzione sul mercato della prima videocamera portapack della Sony una straordinaria opportunità, che avrebbe potuto segnare l'avvento di una nuova era in cui una comunicazione partecipata, realmente condivisa, avrebbe potuto contribuire in maniera fondante alla costruzione di una nuova società.

L'ingresso del nuovo medium viene salutato con tutto lo slancio che le prospettive aperte dalla contestazione e dai profondi rivolgimenti sociali potevano riversare su un prodotto tecnologico, che si caricava, così, di potere magico. Con il videotape sembra concretizzarsi la spinta a rigettare la posizione subalterna, del dover essere e rimanere "pubblico", "spettatori", che si era istituzionalizzata nella comunicazione mediatica. Il bisogno di informazione e comunicazione mai più a senso unico sembra trovare una risposta in questo oggetto tecnologico flessibile e leggero. La novità rispetto alla televisione tradizionale è offerta in grande misura dall'effetto di feedback, per cui chi è stato ripreso può controllare, commentare ciò che vede e, se lo ritiene, modificare, cancellare, intervenire di nuovo. L'asse della comunicazione si sposta su una linea orizzontale, che prevede una più vitale catena di azione-visione-reazione. In altre parole, come è stato detto, feedback-feedforward. Il medium, nelle intenzioni dei nuovi militanti, ritorna alla sua natura originaria, veicolo di dialogo, come il telefono, e come questo collegante fra loro, in una fitta rete, infiniti terminali, tutti provvisti della facoltà di intervenire personalmente nella comunicazione. You are the media.

Ciò che più conta, nelle posizioni teoriche della militanza, è spezzare il monopolio televisivo, portare la televisione alla gente, far fare la televisione alla gente. Del resto il tentativo di coinvolgimento del pubblico con l'opera, l'interazione con lo spettatore, erano parallelamente cercati anche dagli artisti, che nella processualità, nella performatività, nell'uscita dal mercato e dai suoi luoghi deputati vedevano i nuovi orizzonti della creazione artistica.

Una pluralità di motivazioni spinse quindi i protagonisti di questa stagione ad usare il video. Per alcuni rappresentava fondamentalmente uno strumento di cui servirsi per sovvertire il sistema televisivo commerciale e organizzare un sistema di controinformazione, per gli artisti fu invece essenzialmente un nuovo medium, particolarmente adatto, per la sua immaterialità, ad accompagnare il processo di uscita dal sistema mercantile e codificato dell'arte, a registrare la natura effimera degli eventi performativi. Nelle stesse parole degli artisti, che per primi lo hanno adottato, si può leggere una sostanziale indistinzione di fondo tra uso artistico o militante del mezzo. Frank Gillette ad esempio ricorda che "il video era la soluzione, perché non aveva tradizione. Era il contrario esatto della pittura. Non aveva il fardello della formalità", e Steina Vasulka: "Noi eravamo interessati ad altre cose, ai sintetizzatori e all'elettronica, che erano profondamente diversi dal tipo di video praticato dalle comunità di accesso, ma non ci sembrava di operare in campi opposti. Combattevamo insieme e usavamo gli stessi strumenti."

La sovrapposizione tra intenti estetici, sociali e comunicativi era tipica del clima culturale e ideologico, fortemente plurale e partecipativo, che coinvolgeva giovani artisti e filmaker.

Una generazione che, soprattutto in ambito nordamericano, aveva colto l'immenso potere della comunicazione, perché, dall'elaborazione degli studiosi della Scuola di Palo Alto, allora molto seguiti, emerge quanto questa si fondi su processi relazionali, di interazione, in cui ciò che assume importanza sono le reciproche interconnessioni tra i singoli elementi del processo comunicativo. "È impossibile non comunicare" viene postulato nel libro Pragmatica della comunicazione umana di Watzlawick, Beavin e Jackson che viene pubblicato nel 1967, e tra i più noti esponenti del gruppo figurava Gregory Bateson, molto letto nelle università, dai giovani artisti e filmaker. Formatisi anche sulle teorie di McLuhan, sull'utopismo costruttivo di Buckminster Fuller, che con lungimiranza già parlava di ecologia dei media e, ovviamente, su Marcuse, che aveva colto il carattere fondamentalmente repressivo della società industriale avanzata, che,appiattiva l'uomo all'unica dimensione del consumatore, libero solo di scegliere tra prodotti diversi. Marcuse però legava indiscriminatamente questa sua visione pessimistica al progresso tecnico.

Il contesto storico contemporaneo sembrava confermare quanto il potere di una comunicazione a senso unico potesse condizionare il pensiero degli individui. La guerra in Vietnam si era ormai avvitata verso un progressivo e inutile incrudelirsi, piattamente seguita da un giornalismo embedded, gli assassinii di Martin Luther King e Robert Kennedy avevano spezzato molte speranze, definitivamente frustrate dalla presidenza Nixon e dallo spregiudicato uso che il potere faceva dei mezzi di comunicazione di massa.

Prima imputata era quindi la televisione, o, meglio, l'uso gerarchico e distorto che se ne faceva - the boob tube o the beast tv, come la definiva Michael Shamberg, uno dei protagonisti del video di controinformazione -, il cui potere sulle nostre menti andava spezzato. In realtà ciò che andava cambiato non era la tecnologia, l' hardware, ma le istruzioni da dare alla macchina, il software. E Radical Software si chiamerà infatti proprio la rivista, nata all'indomani del festival di Woodstock, che meglio ha saputo interpretare quest'epoca e che rappresenterà per i pochi anni in cui fu pubblicata uno strumento imprescindibile per comprendere l'ampiezza e la ricchezza dei contributi e del dibattito intercorso sulle enormi possibilità che si sarebbero aperte attraverso un uso orizzontale delle tecnologie per il cambiamento sociale.

La grande intuizione di questa galassia di artisti, filmaker, scrittori, musicisti fu credere che i mezzi più idonei per operare nella trasformazione della società fossero quelli legati all'informazione e alla comunicazione, come lo stesso Shamberg indicava nel risvolto di copertina del suo mitico libro Guerrilla Television, pubblicato nel 1971 e subito divenuto una sorta di Bibbia per i collettivi di controinformazione: "Questo libro è il primo della sua specie. Ci dice come possiamo spezzare il dominio della televisione sopra la mente americana. [...] La politica è obsoleta e gli strumenti e le strategie di informazione sono mezzi più potenti per arrivare a mutamenti sociali."

Immaginarono un nuovo ordine sociale che avrebbe fatto crescere nuove forme di comunità attraverso la creazione di una rete intelligente di tecnologie condivise, secondo la visione utopica di Gene Youngblood, una Videosfera, debitrice anche del pensiero di Teilhard de Chardin (scriverà nel 1971 in Expanded cinema, uno dei primi libri a occuparsi di video come di una delle discipline comprese nel concetto allargato di cinema espanso, insieme alle performance, agli happening, agli spettacoli della scena underground: "La videosfera altererà le menti degli uomini e l'architettura delle loro abitazioni"). Alla fine degli anni sessanta sembrava perciò possibile infiltrarsi nelle maglie del sistema delle telecomunicazioni del mondo occidentale e trasformarlo dall'interno. Il video come grimaldello per decostruire il sistema mediatico gerarchico e strumento inaugurale di una rivoluzione nella comunicazione. Perché comunicazione viene dal latino communicare, che vuol dire "mettere in comune, far partecipe, condividere, mettere insieme, partecipare a, essere parte di". E, se Shamberg sostiene che per "guerrilla cibernetica si intende in realtà una ristrutturazione dei canali comunicativi, e non una loro conquista", sembra quasi preconizzare una sorta di rivoluzione informatica, decentralizzata e vaporizzata, accessibile a tutti e intensamente partecipativa.

Con le nuove videocamere portapack con nastro da mezzo pollice a bobina aperta - a twenty-five-pound studio-in-a-box -, relativamente economiche e flessibili, che rappresentavano una sorta di tecnologia al grado zero, sembra potersi realizzare l'utopia di riuscire a produrre individualmente non solo dei video, ma di trasformarsi anche in veri produttori di comunicazione, da poter poi immettere in una rete distributiva condivisa. Siamo alle soglie di quello che poi, decenni dopo, Internet con i blog e i social network renderà possibile. I canali allora individuati, le reti via cavo ad abbonamento, la cosiddetta televisione dell'accesso, e l'home video scambiato per via postale, si rivelarono presto assolutamente ininfluenti e il medium dominante nella vita della quasi totalità delle persone rimase la televisione commerciale. Ma è interessante leggere quanto, con una certa ingenuità, scriveva Shamberg a proposito di questo primo progetto di comunicazione partecipata, che, con una forma di pagamento quasi simbolica, prevedeva il libero scambio di prodotti infinitamente copiabili ed utilizzabili: "Ciò che stiamo cercando di fare è mettere insieme un network che sostituisca il network. [...] Noi vogliamo sostituire questo con il sistema più interattivo possibile, che è in pratica un sistema a due vie. Non sei solo un consumatore passivo,... ma puoi anche produrre. Fondamentalmente si tratta di un processo, più che di un prodotto... Contiamo sul fatto che la gente paghi per accedere a questo processo... Se faccio uscire un video su questo canale, ognuno è libero di copiarlo. Quello che si paga è per l'accesso a quel video."

Va rivalutata la componenete "movimentista" sulla scena delle origini del video, spesso semioscurata dalla storicizzazione successiva, che ha privilegiato indubbiamente il versante artistico della ricerca, costruendone quasi una mitizzazione. I fattori cui si deve questo sono molteplici, non ultimo il rapido estinguersi del video militante o il suo dissolversi nel sistema mediatico. La spinta emozionale di questi movimenti è molto forte, si espande velocemente, ma altrettanto velocemente si estingue, come una meteora. L'impronta che lascia, però, non è solo di ordine esistenziale e sociale, lascia dei semi che, ripresi dallo stesso Gene Youngblood nel '91, a venti anni esatti dalla pubblicazione di Expanded cinema, gli fanno scrivere con lungimiranza: "Una rivoluzione delle comunicazioni dovrebbe occuparsi di creare un mezzo combinando televisione, computer, telefono, satellite in un'unica rete multimediale controllata dall'utente, il cui uso dovrebbe essere gratuito".

Ma il motivo forse maggiore della sostanziale "semirimozione" dei collettivi di video militante dalla storia delle origini del video è dato probabilmente dal ruolo che le istituzioni hanno rivestito negli Stati Uniti. Paradossalmente, mentre la maggior parte dell'attività video delle origini si collocava oltre le istituzioni e il mercato, l'istituzionalizzazione del mezzo iniziò molto presto.

Il sostanziale fallimento dell'assorbimento del nuovo medium nel circuito dell'arte, sotto forma di copie firmate in "edizione limitata" - che in questo modo però negavano la natura più specifica del mezzo, la sua infinita riproducibilità -, come gli esperimenti di Leo Castelli a New York e, ancora più interessante, di Art/Tapes/22 a Firenze, con l'organizzazione anche di mostre "leggere" e itineranti come Americans in Florence, Europeans in Florence, comportò una crescita del ruolo che le istituzioni giocarono e dell'influenza che ebbero nell'indirizzare la ricerca.

A partire dai primi anni settanta molte di queste, in particolare il New York State Council on the Arts (NYSCA) e la Rockefeller Foundation (guidata da Howard Klein, il cui consigliere molto ascoltato era Nam June Paik), iniziarono a investire cospicui fondi principalmente nella ricerca video artistica, così come i principali musei organizzarono mostre e crearono appositi dipartimenti dedicati alla videoarte, tra i primi il MoMA, sotto la direzione di Barbara London. Erano soprattutto interessate a sostenerne il versante della sperimentazione visiva, finanziando la creazione di workshop presso stazioni televisive pubbliche, mettendo a disposizione della ricerca artistica costose attrezzature. Ma in questo modo si operò una scelta irreversibile su ciò che meritava di essere visto e di poter avere spazio e ciò che era considerato poco interessante. Tra la videoarte, quindi, e il video di militanza sociale.

È stato più volte affermato che la marginalità dei collettivi video andrebbe principalmente rintracciata nella frequente rivendicazione dell'uso "sporco", sciatto del videotape, con la motivazione che ciò che realmente interessasse fosse la sua funzione di stimolo al risveglio politico delle persone. Il rifuggire ogni residuo di auraticità sembrava poi evidente nella scelta di operare quasi sempre in gruppo, con ruoli interscambiabili, per il rifiuto di creare nuovamente una divisione di ruoli che rischiasse di riproporre l'isolamento "creativo" del regista. Una tradizione, questa, del collettivismo e della dimensione progettuale dell'opera, che aveva trovato espressione appena nel decennio precedente nei gruppi di ricerca visuale, cinetica e programmata, che si inserivano nel solco del versante di più marcata progettualità delle avanguardie, cercando di coniugare arte e tecnica, non a caso definiti da Lea Vergine "l'ultima avanguardia".

In realtà la presunta voluta marginalità e la scarsa qualità della produzione, spesso caotica, disturbata, noiosa, non sono caratteristiche univoche dell'estremamente variegata galassia dei collettivi di video militante. Alcuni di questi avevano ben chiara fin dalle origini la volontà di creare un solido circuito alternativo, seguita poi, quando ne apparve chiaro il fallimento, da una precisa strategia di insinuazione nel sistema televisivo, per operarne un cambiamento dall'interno.

Giova quindi tentare un approfondimento sulle diverse realtà del video di controinformazione, provando ad analizzare la storia e le intenzionalità dei maggiori collettivi che, principalmente sulla scena nordamericana, operavano per una nuova comunicazione sociale.

Se alcuni, come Videofreex, rivendicavano con chiarezza un'appartenenza all'orizzonte della controcultura, altri, come Raindance Corporation e poi Top Value Television (TVTV), ebbero chiaro sin da subito uno sbocco nello scenario televisivo nazionale, per ridefinirne comunicazione e linguaggio. Infine, altri ancora, come gli Ant Farm, coniugavano la performatività "antitecnologica" delle loro azioni con proposte abitative di tipo nomadico e comunitario, vicine alla processualità concettuale di certa architettura radicale, particolarmente sensibile a nuovi sistemi di comunicazione e alla definizione di nuovi modelli di comportamento, evidenti ad esempio nelle contemporanee proposte progettuali di Ugo La Pietra in Italia.

Il ruolo che giocò la rivista Radical Software in questo contesto fu estremamente significativo, per aver contribuito ad alimentare e a diffondere la riflessione e il dibattito teorico sulle nuove tecnologie per il cambiamento sociale. Alcuni di questi scritti possono sembrare oggi un po' datati, anche per via del tono profetico velato di ingenuità che li contraddistingue, non si può tuttavia negarne la preveggenza soprattutto nell'aver individuato nelle nuove tecnologie la chiave per una comunicazione libera e realmente condivisa, precondizione necessaria per la costruzione di un nuovo sistema sociale. Da alcuni anni tutti i numeri di Radical Software sono stati digitalizzati e resi disponibili in rete, venendo a costituire un utilissimo archivio da consultare liberamente.

Videofreex è stato uno dei primi collettivi a formarsi spontaneamente, nel 1969, dall'incontro dei diversi membri al festival di Woodstock, che erano andati a riprendere individualmente con le videocamere portapack. Sin dagli inizi della propria attività, in un loft a lower Manhattan, appare concentrato sulla documentazione della controcultura americana (con interviste, per esempio, a Fred Hampton, leader delle Black Panthers, o agli Hell's Angels), senza grandi preoccupazioni di rinnovamento linguistico (si trattava fondamentalmente di registrazioni in tempo reale, accompagnate da brani di sperimentazione elettronica ottenuta con dispositivi "casalinghi"), né una particolare selettività riguardo ai temi scelti. Tutto questo materiale avrebbe dovuto costituire la trasmissione The Now Project: Subject to Change, prodotta dal vivo per la CBS, ma il progetto fallì ben presto, perché la CBS non approvò il primo video pilota.

Il collettivo continuò però le proprie iniziative nel senso della democratizzazione del mezzo, formando centinaia di videomaker attraverso il progetto Media Bus. L'idea del laboratorio multimediale itinerante è del resto comune ad altre iniziative dell'epoca, dal Media Van degli Ant Farm alla Fernsehgalerie di Gerry Schum in Germania, presto riconvertita in prima video galleria mobile su camper per portare dovunque e ad un pubblico più allargato di quello del circuito dell'arte le prime registrazioni di performance e di eventi di Land Art.

Il fallimento delle finalità di intervento sul mezzo televisivo su scala nazionale motivò la scelta del gruppo di orientarsi su scala locale. Dopo essersi trasferito in campagna, a Lonesville, nello stato di New York, nel 1971, iniziò ad operare dapprima come uno dei primi media centre, con una programmazione variegata, per poi fondare nel 1972 Lonesville TV, la prima televisione pirata americana, che riprese tra l'altro la Convention del Partito Repubblicano del 1972, in un progetto più ampio concepito all'interno di Top Value Television (TVTV), ma soprattutto si dedicò a sperimentare una forma di community TV, con sistemi di trasmissione a due vie, cercando l'interazione dal vivo con il pubblico locale.

La Raindance Corporation, fondata anch'essa nel 1969, da personalità come Frank Gillette, Michael Shamberg e Ira Schneider, tra gli altri, con una preparazione teorica più sofisticata e studi che spaziavano dalla cibernetica all'ecologia, cercò di coniugare la ricerca video con un modello alternativo di comunicazione televisiva, animando in prima persona autorevolmente il dibattito in corso attraverso la pubblicazione della rivista Radical Software dal 1970 al 1974. Michael Shamberg, già corrispondente di Time-Life, scrisse nel 1971 il mitico libro Guerrilla Television, prendendo a prestito da Paul Ryan, altro membro di Raindance, allievo e assistente di McLuhan, il termine guerrilla television (originariamente cybernetic guerrilla warfare ). Il libro rappresentava il tentativo di far approdare a una più vasta diffusione le idee che il gruppo andava esponendo su Radical Software, che pure raggiunse la ragguardevole tiratura di 5000 copie, ed era diviso in due sezioni: una più teorica, "meta manual", e una contenente indicazioni pratiche, "manual". La copertina, come già altre di Radical Software, era stata disegnata dagli Ant Farm.

Shamberg, quindi, dopo una lunga riflessione condotta con Allen Rucker sul ruolo della videocamera portapack come medium ideale per un giornalismo realmente eversivo, diede corso al tentativo di insinuarsi nella comunicazione televisiva nazionale. Per questo progetto creò un consorzio tra i diversi gruppi che lavoravano con il video (Videofreex, Ant Farm, alcuni membri di Raindance e altri videomaker) e fondò all'inizio del 1972 Top Value Television (TVTV), con l'obiettivo di trasmettere, in un considerevole sforzo produttivo ottenuto grazie al finanziamento di piccoli gruppi, fondazioni e televisioni via cavo, la documentazione "fuori le quinte" della Convention del Partito Repubblicano. Il video che ne scaturì, Four More Years, si può considerare il capostipite di una maniera diversa di concepire il documentario o l'inchiesta giornalistica, in soggettiva, senza voce fuori campo, seguendo ovunque i delegati, con un sapiente, accurato e innovativo uso del montaggio. La copertura dell'evento che TVTV riuscì a dare fu efficace, i servizi furono venduti alle stazioni televisive via cavo e nel complesso la trasmissione ebbe una buona eco nazionale. Questo permise a TVTV di continuare su questa strada innovativa, e a documentare, oltre alla Convention gemella del Partito Democratico, la società americana attraverso i più significativi fenomeni che la rappresentavano: la notte degli Oscar (Looks at the Oscars, 1976), il Super Bowl, i predicatori mediatici (Lord of the Universe, 1974, sull'enorme seguito di Guru Maharaj Ji, condotto da uno dei protagonisti della contestazione e della scena hippy americana, Abbie Hoffman). Per tutti gli anni settanta TVTV continuò con questa produzione, per sciogliersi poi nel 1979, e molti dei suoi membri entrarono nel sistema produttivo di Hollywood: Shamberg è tuttora un affermato produttore cinematografico (Erin Brockovich, Gattaca, Pulp Fiction) nella Jersey Films, in società con Danny DeVito, come Skip Blumberg e altri ancora.

Gli Ant Farm, invece, erano una "comune" di architetti, artisti, designer, filmaker della West Coast, totalmente immersi nella cultura underground californiana, vicini alle posizioni dell'architettura radicale americana. Prendendo come simbolo della propria organizzazione democratica comunitaria un giocattolo in plastica trasparente, la "fattoria delle formiche", contenente formiche vive da osservare nella loro vita, operavano in un contesto concettuale e performativo, realizzando performance e installazioni spettacolari, fortemente critiche verso i "valori" americani e documentandole in video; progettando sistemi abitativi minimali, con grande uso di strutture gonfiabili, flessibili ed economiche, rispecchianti uno stile di vita nomadico e comunitario.

La loro avventura nel campo del video iniziò nel 1971, quando cominciarono a girare per il paese sulla loro Media Van, una chevrolet modificata in uno studio mobile multimediale, organizzando happening pubblici e condividendo con gli spettatori le immagini girate e informazione alternativa. Il van trasportava anche la struttura gonfiabile ICE9, che poteva essere gonfiata con il gas del tubo di scappamento del motore.

I loro progetti abitativi tendevano a una sempre maggiore visionarietà, senza trascurare flessibilità, trasformabilità ed ecocompatibilità, seguendo le forme organiche a loro più congeniali. Altro interessante progetto educativo-abitativo è la Truck-in University, un'università aperta e itinerante formata da vagoni merci (trucks) equipaggiati con camera oscura, videocamera, cassette, macchine fotografiche, ciclostile, proiettori e affiancata da inflatables pronti ad accogliere gli studenti, adattabili a ogni tipo di spazio.

In seguito a un incendio nel loro studio divampato nel 1978, il gruppo si sciolse, ma la portata delle loro azioni trova un'eco anche in Italia, introdotta a Firenze da Gianni Pettena, tra l'altro fondatore nel '73 di Global Tools, un gruppo per la comunicazione cui partecipano, tra gli altri, anche Ugo La Pietra e Franco Vaccari, entrambi provenienti dalla ricerca concettuale nel campo dell'immagine (Vaccari) e della progettazione ambientale (La Pietra): un collettivo che progetta "nuovi modelli di creatività diffusa, al di fuori del sistema dell'arte, con la proposta di nuovi sistemi di comunicazione - liberati dai gruppi di potere e di manipolazione dei messaggi -, con la definizione di modelli di comportamento e progettuali che indicavano un modo nuovo di porsi nei confronti dell'ambiente urbano: la riappropriazione dell'ambiente" (Ugo La Pietra). Ed è proprio di Ugo La Pietra, attivo anche nel cinema sperimentale, la progettazione di un microambiente, La casa telematica, presentato al MoMA nel 1972 nel quadro della mostra "Italy: the New Domestic Landscape", che anticipa il sogno, oggi realizzato, di connettere la realtà domestica ad una rete globale di informazioni.

La condivisione con i gruppi di controinformazione dello stesso orizzonte critico e di pratiche destabilizzanti il sistema della comunicazione è comune a molti artisti, che operano nell'ambito dell'arte concettuale e della processualità negli anni settanta. Pur senza raggiungere la radicalità delle pratiche situazioniste e del cinema anti-cinema di Guy Debord, fanno spesso propria la dimensione dello straniamento, del détournement, come metodo per infiltrarsi nel mondo dei media con lo scopo di stornarne intenti e direttive.

Chi, sin dalle sue primissime azioni, opera in questa direzione è Antoni Muntadas, animatore nella Spagna dei primi anni settanta di esperimenti di televisione libera e locale in Catalogna, non lontani dalle community tv americane (Cadaques Canal Local, del 1974 e Barcelona Districto Uno, del 1976), sviluppando in seguito incessantemente negli Stati Uniti la sua indagine critica sul potere dei media con azioni e installazioni che anticipano interventi di Public Art su scala urbana.

In un'analoga ottica straniante di critica al potere del sistema mediatico si può ascrivere l'opera di comunicazione di collettivi di formazione più recente, quali Adbusters, un gruppo di grafici e designer canadesi, editori di una rivista diffusa in tutto il mondo di forte critica al consumismo mediatico, da tempo collaboratore, tra l'altro, per le campagne di Greenpeace e di altre organizzazioni no-profit, che opera all'insegna del subvertising (da subvert = sovvertire e advertising = pubblicità). La pratica del détournement è qui applicata ai maggiori marchi commerciali, con un'ironia graffiante e una cultura grafica sapiente. Il loro leader, Kalle Lasn, teorizza la culture jamming, la logica dell'interferenza, del disturbo della trasmissione culturale, per "interrompere la trance mediatica nella quale siamo immersi, per riappropriarci della nostra mente, del nostro corpo, della nostra vita".

Ma forse gli eredi più diretti della visionarietà dei collettivi della controcultura americana, che nelle tecnologie vedevano la chiave per una cultura della libera condivisione dell'informazione e quindi per il cambiamento sociale, sono stati tutti i movimenti alternativi che dal cyberpunk sono approdati all' hacking - inteso qui in senso amichevole e non come sabotaggio del sistema - e all' attivismo, che, attraverso l'appropriazione critica delle strategie comunicative dei circuiti mediatici, credono nella possibilità di creare da sé una propria comunicazione, all'insegna dell'interazione, della contaminazione dei linguaggi, di una processualità aperta ad azioni collettive. Simbolo efficace di questa posizione è l'immagine scelta per il logo di un evento che si è svolto qualche anno fa a Roma: AHA (Activism Hacking Artivism): un tubetto di colla UHU, icona che rimanda al costruire, al fare con le proprie mani, il cui marchio è stato mutato in AHA.

Perché forse è davvero a questo che pensava Nam June Paik con la sua frase profetica: "Quanto tempo passerà ancora prima che ogni artista abbia la sua stazione televisiva?". Oggi, infatti, come ha di recente teorizzato Youngblood, la premessa di una rivoluzione della comunicazione è nel libero accesso ai due componenti della tecnologia dei media: i mezzi tecnici di produzione e la rete di distribuzione. Entrambi costituiscono quello che Youngblood chiama metamedia. I metamedia rendono possibile una nuova pratica culturale, il metadesign, e, di conseguenza, un nuovo tipo di professione, il metadesigner. La principale caratteristica del metadesign consiste nella fusione delle varie professioni considerate fino ad ora isolatamente: quella dell'artista come creatore, quella dell'artigiano come realizzatore, quella dell'informatico come tecnico, quella del designer come progettista. Il metadesigner opera nei più diversi campi, espandendo le sue competenze da quello artistico a quello della comunicazione e alle reti telematiche.

Il libero accesso alle componenti della tecnologia dei media deve essere quindi accompagnato da un uso consapevole del mezzo. Non è perciò soltanto il medium in sé ad essere rivoluzionario, come sembra di leggere nelle parole dei "profeti" della prima telecamera portapack. Il video può essere usato per la lotta politica, ma anche come strumento di controllo, come supporto didattico, mezzo artistico. Non è sempre vero che a contenuti sociali avanzati corrisponda necessariamente un'adeguata radicalità nei risultati artistici. Quando Godard, nel suo ciclo di lezioni sulla storia del cinema intrecciata a quella dei suoi film, tenuto per gli studenti di un'università canadese, arriva a trattare il tema del cinema politico, presenta L'age d'or di Buñuel e Dalì come il più compiuto esempio di cinema davvero rivoluzionario, perché rivoluziona soprattutto le forme, più difficili da sovvertire dei contenuti. E nella selezione da mostrare c'era anche La Chinoise, del 1967, uno dei suoi film più politici.

La visionarietà è una componente imprescindibile di ogni progetto rivoluzionario, la cui attuazione dipende, però, dall'efficacia tecnica, così anche il perseguire una comunicazione libera e condivisa richiede una conoscenza profonda delle tecnologie.

Roma, Gennaio 2010