La Critica

Dalla metafora alla fotosofia [1]

di Angelo Candiano

1. Dalle "montagne" ai "resti"

Le amare constatazioni che seguono la metabolizzazione dei "fatti" preponderanti e indicativi della cultura contemporanea, dai "piatti" così apparentemente succulenti, e dai bocconi invece sempre più magri, asciutti, crudi e "diretti", lasciano alle nostre papille gustative un "sapore" altrettanto amaro e all'organismo, cibato di nulla, una sensazione sgradevole di vuoto e di vertigine.

Dagli ultimi decenni del secolo scorso abbiamo assistito ad una dèbâcle teorica, via via sempre più allargata e destrutturante che ha minato dall'interno molti tra i più solidi campi del sapere: la 'fine della filosofia', la 'fine della scienza', la 'fine dell'arte', la 'fine della storia' ecc…; con la conseguenza di un azzeramento vistoso dei nostri orizzonti, i quali per secoli sono stati rappresentati, metaforicamente, dalle "montagne" del sapere strutturato e organizzato storicamente in sistemi lineari.

In questa condizione precaria abbiamo cercato, affannandoci, di sostenere quelle "montagne", come di sostituirle con altre, preoccupandoci di trovare presto e bene nuove alternative dai contenuti e dalle strutture degne. Ma i "piatti" via via con la loro preparazione e degustazione hanno restituito invece, per il loro contenuto calorico basso e inadeguato, e dal sapore amaro, ancora altre sensazioni di vuoto, con un progressivo "disinvestimento di senso" [2] (delle montagne) dai quei ruoli e significati tradizionali, bruciando progressivamente e irreversibilmente le ultime risorse, riducendo così al minimo il nostro sapere.

Ma le "montagne" esistono ovviamente ancora come tutte le altre cose intorno a noi, il "disinvestimento di senso" e di significato non le ha disintegrate fisicamente, ma solo simbolicamente. Questo è comunque bastato, adesso le montagne svuotate e "crollate" su se stesse, destrutturate e demetaforizzate, nonostante i tentativi, determinano una situazione anomala e nuova dagli aspetti drammatici, ma sorprendentemente positivi.

Intanto per via della loro "assenza" non sarà più possibile quella vista da sotto così incombente, timorosa e di rispettabile riverenza, rendendo vana quella "tradizionale [3]" corsa fino alla cima delle vette (le torri d'avorio degli intellettuali?); i quali privilegiati, animati da nobili e romantici «slanci prometeici» rispetto a quelli rimasti "sotto", guardavano «dall'alto in basso con infinito orgoglio i "porcellini di valle", come li chiamavano, quelle volgari folle plebee che non facevano mai uno sforzo per elevarsi a maestose altezze» [4].

L'azzeramento del tutto all'orizzonte fa presagire l'avvento di qualcosa di nuovo; è possibile scorgerlo visto che tutto è stato azzerato e la linea dell'orizzonte è, adesso, piatta, senza ingombri e senza mediazione delle metafore [5]?

Tuttavia a questa straordinaria apertura dell'orizzonte (adesso di sola luce) si leva una orizzontalità quasi trasversale assolutamente unica e irripetibile.

Nella perdita della verticalità i "resti" delle montagne si rendono adesso disponibili ad un nuovo coagulo per essere rivitalizzati in un sistema, rianellati e portati a nuova funzione. Questi "resti" senza senso, segni di presenze come resti di processi di dissipazione e frantumazione, tracce, orme, vengono adesso riuniti sotto un unico punto di vista per indurre il passaggio dal vecchio sistema lineare a una nuova idea di sistema trasversale e non-lineare, cioè caotico.

Il processo di semiosi [6] a cui si tenderebbe, per evidenziare il singolo resto o segno adesso issato a stendardo, a modello, di "lavoro" forzato, affinchè restituisca significato e peso, è comunque troppo debole; e il resto-segno è destinato, quindi, a vedersi come 'segno' solo nei suoi aspetti formali e materiali, senza significati allusivi, dal valore simbolicamente "esperienziale" [7].

Il processo geometrico di "riduzione" formale dalle montagne a resti e polvere frantumata, adesso senza significati, può essere considerato un omologo della cosiddetta "trasformazione del fornaio [8]"; l'archeologia del sapere frammentata è pronta ad essere "ri-organizzata" in un sistema non-lineare, trovandosi in punti diversi dello spazio adesso "rotto". Tuttavia l'archeologia del sapere si rianima e assume sembianze, si organizza, e si dà forma in un nuovo caos, creando così grande complessità.

I singoli resti o "cocci", che adesso rimangono, dal valore esclusivamente esperienziale, sono quindi il sýmbolon di un'ospitalità che ci è stata concessa nel mondo per un tempo x, di aver "abitato" quel tempo-spazio passato. Per accedere al futuro, cioè al nuovo mondo, non resta altro che 'farci ri-conoscere' riconsegnando al legittimo proprietario quel resto-coccio dimostrandogli riconoscenza e gratitudine per il caro "affido", "ripagandolo" come un pegno, correttamente prima che qualcuno lo chieda.

I resti piatti e la polvere delle grandiose battaglie, che hanno depauperato positivamente, cioè liberando, lo spazio dell'orizzonte, sono rimaste a terra e sono disponibili come testimoni della nostra storia.

Da questo momento in avanti il vecchio sistema dinamico diventa caotico e imprevedibile, i resti-cocci sono adesso disponibili ad un nuovo assetto, un nuovo ordine, che si attuerà con un suo tempo x [incognita]. La disponibilità dei resti a consolidarsi nel loro posto futuro è la prossima sfida che la complessità ha offerto in eredità all'umanità; cioè rimettere quei "resti" e le cose al loro posto per un nuovo ordine verso, quindi, la fine della complessità.

Non conosciamo l'"unità di tempo x" con cui questo si realizzerà, visto che questa è certamente la missione futura, ma per il momento siamo entrati in una fase di attesa, probabilmente molto lunga, di cui è impossibile prevedere la durata per il suo compimento.

[…]

Immagine qualunque

[9]

2. Dai "resti" alla luce

Prima che il tutto assuma le vesti di un nuovo ordine, con i posti occupati a logica dai vecchi cocci rivitalizzati, la luce rende visibili con nitidezza questi resti adesso che gli orizzonti si stagliano puliti e nitidi tra il cielo e la terra. E sull'oltre possiamo vedere e scorgere con coscienza e profonda consapevolezza la luce stessa, piena e chiara.

Luce. O buio come non-luce.

C'è l'alternarsi delle albe e dei tramonti, veloci, di luce pulita, di giorni che si susseguono nella leggerezza della luce. L'atmosfera sospesa fa pensare a quella lucidità che può solitamente anticipare e determinare il disperato ed estremo gesto del suicidio (del mondo).

«I mattini passano chiari e deserti […] Il mattino trascorreva lento, era un gorgo di immobile luce» [10].

Ci basta l'idea del possibile e fattibile suicidio, ma la fase per una seconda rinascita è vicina, adesso con il reset degli orizzonti; la luce diventa la protagonista assoluta, essa spazia liberamente, lasciando che i fotoni si muovano liberamente con la loro essenziale informazione sull'orizzonte tra terra e cielo, tra finito e infinito; è la luce stessa che crea confine tra una realtà infinita e trascendentale e il creato, la realtà finita.

Dall'abbassamento degli ingombri verticali [11], si apre la lichtung [12], quella radura aperta alla luce, quell'illuminamento che caduto dall'alto, dal cielo, presenta la luce adesso direttamente come luce materiale avendo perso la sua valenza metaforica. E' proprio questa luce, quella dell'orizzonte, quella visibile, a diventare intermedia tra le nostre cose terrene, visibili e presenti, e l'altra luce , quella per noi al momento invisibile, che si perde negli spazi lontanissimi e alti dell'oscurità della futura conoscenza. La luce "inaudita" per potenza e luminosità ci fa pensare per contrasto, per bisogno quasi di riposo, a quelle caverne scavate dentro proprio le vecchie montagne distrutte della vecchia conoscenza, in cui si realizzavano magicamente quei riti propiziatori all'immagine e da cui per opportunità e per amore della nuova conoscenza è stato bene uscirne, sperando comunque che il bagliore eccessivo di questa nuova luce non accechi la nostra vista [13].

In questo panorama asciutto, nell'assenza delle montagne e della metafora, si staglia quel processo in tutte le sue fasi di conoscenza della luce, la 'fotosofia'; la dimensione per cui e in cui la luce stessa si articola in una 'ontologia della luce', con una sua esistenza, un suo essere, un essere in sé della luce, un'autoreferenzialità della luce.

E' la luce materiale, quella vera fatta di fotoni, che adesso consiglia e si predispone offrendo, oltre la comunicazione di un'informazione essenziale, anche l'idea nuova di "intercambiabilità"; le risposte che essa darà alle nostre domande sono adesso universali, trascendono la specificità, la peculiarità di una singola disciplina; insomma potrebbe essere l'inizio per l'accordo di quel linguaggio universale tanto sognato tra gli uomini, quella trasversalità, quel comune intendimento che farebbe prendere al mondo la tanto sognata unica via, portandoci fuori così dalla complessità, e dallo stallo, dall'impasse, dalle incomprensioni che sta generando.

L'atomizzazione dei nostri orizzonti ha "s-velato" la luce, ha fatto luce, non solo nella sua autoreferenzialità, ma anche illuminando noi e i nostri dintorni, con una luce, adesso differente e di nuova qualità, materiale e non metaforica: ci sentiamo quasi svuotati e leggeri, con una nuova percezione dello spazio come di noi stessi.

Sembra che la ragione, con fatica ma radicata da sempre in noi [14] si sia portata ora fuori, al di là del nostro soggetto e della persona fisica, dissolvendosi nella luce assoluta di verità che adesso ci guida; e il cielo stellato che prima era sopra di noi, si sia portato dentro di noi, fuori dalla nostra comprensione intelligibile, ma che ci rende leggeri, liberi e fuori dal tempo.

In questa situazione dove l'elemento materiale, la montagna si è ridotta fino a dematerializzarsi e a esaurirsi, il cosiddetto "rumore di fondo" [15] che problematizza la percezione visiva si annulla, portandoci alla pura essenza del sapere e all'autentica visione fisiologica della luce; come alla sua disponibilità a trasportare informazione attraverso il fotone, che adesso libero viaggia svincolato senza "rumore di fondo".

Una volta restituito il "resto" avrò così la luce piena e riuscirò ad "abitare" (meglio) quella luce, che ha perso la sua metaforica ed è diventata chiara, forte e dalle nuove valenze; condizione essenziale affinchè la fotosofia si presenti.

[…]

3. i media

Non è fuori luogo parlare di media e di tecnologie in un contesto che tratta la luce. Nella storia dell'umanità la curiosità di "vedere" l'interazione materia-luce ha spinto l'uomo a estendere la propria capacità visiva anche in situazioni di materia apparentemente inerte, come di visioni nel cielo lontano; e di "portare" con sé, di conservare addirittura le visioni effettuate del reale. Apparecchi fotografici e strumenti di ogni genere sono stati messi a punto dall'uomo per accrescere le facoltà umane e di portare non solo nuova conoscenza, ma anche di "gestirla" e di affidarla alle generazioni future fino a costituire sapere e memoria collettive: una mappatura del visibile come dell'invisibile all'occhio umano è adesso disponibile.

La fotografia è una delle tecniche a cui l'uomo ha fatto maggior affidamento, basata sulla registrazione del reale tramite la luce è considerata la prima tecnologia artistica in assoluto della storia.

Riuscire a registrare la riflessione di luce di un oggetto nello spazio è considerabile il primo passo verso la rarefazione della nostra materia, cioè una dematerializzazione della realtà materiale a vantaggio di una "mediazione" tecnologica per un'immagine. Quasi un processo di dissipazione materica che dalla materia tridimensionale si riduce alla semplice immagine chimica per poi ancora dissiparsi in una immagine digitale sempre più "naturalizzata" e insita nel processo della visione.

Così facendo, in questo susseguirsi, si perderà definitivamente quella vecchia idea, ancora presente ma in questi anni particolarmente indebolita, e non più valida che «in nome del progresso la nostra cultura ufficiale sta cercando di costringere i nuovi media a fare il lavoro dei vecchi» [16].

Pertanto, visto che tutto nel frattempo è stato mediato dalla tecnologia, cosa possono fare la fotografia come i nuovi media elettronici in questo contesto con la vecchia realtà e le montagne frantumate, quando la foto e i media sono stati referenti e mediazione di quelle montagne che prima si stagliavano all'orizzonte? Se erano prima pronti e disposti all'"impressione" del reale, alla registrazione fenomenica della realtà, adesso che cosa faranno se vedranno solo la luce?

Che cosa farà adesso che non ha più davanti a se alcuna materia ingombrante? Adesso che si trova lo spazio vuoto, ma carico di luce "materica"?

Probabilmente ci abbandoneremo al piacere della luce, a guardarla, ad osservarla, a conoscerla, anche solo in virtù della fisiologia del vedere, grazie all'occhio e alla stessa luce.

Giungeremo lo stesso, senza media, ad una mediazione "estetica" colta?

La fine della vecchia realtà porta come deduzione alla fine del media in quanto medium; cioè il processo di percezione diventa continuo, interno, e fuori dalla concezione estetica tradizionale di una mediazione tecnica o tecnologica. Una percezione come conseguenza logica solo di un processo unicamente visivo, adesso, senza significato. Quindi un'"estetica", aisthesis, non più colta, ma ridotta alla semplice osservazione, come fisiologia del guardare (la luce).

[…]

4. Fotosofia e coscienza tecnologica

Uno dei fatti determinanti della "fine della fotografia" [17] è il passaggio della stessa dal territorio semiologico a quello fenomenologico.

[…]

La fotografia quindi come tecnologia e come tutte le altre 'tecnologie' non produce solo icone, immagini, sguardi, cioè i suoi prodotti logici risultato di una programmazione, ma anche, e soprattutto processi; processi che si rapportano e hanno una funzione specifica all'interno del suo sistema produttivo di riferimento.

Ma la macchina avviata è pura logica, è sistema, e rende e produce secondo la sua fenomenologia insita, ma i processi produttivi di qualsiasi tecnologia sono analoghi tra loro, sebbene finalizzati a produzioni diverse; la loro analogia sta appunto nella "logia", nel saper "funzionare".

Lo strumento in quanto media o strumento come estensione dei sensi non esiste più, la novità è che adesso i processi tecnologici si sono talmente allargati (e i processi come nel digitale si sono sublimati in noi) all'esterno del proprio ambito specifico, cioè quello degli apparati produttivi preposti; e resi consapevoli che la macchina è adesso scomparsa in quanto strumento di produzione, si è frantumata e i suoi processi si sono adesso riattualizzati metabolizzandoli dentro in noi, disintegrando l'apparato meccanico-tecnologico.

In quest'ultimo secolo siamo passati dall'attenzione sull'uomo, all'attenzione sullo strumento, e ancora all'attenzione sui processi. Siamo dentro un'immensa macchina-sistema che fagocita visualizzandolo qualsiasi processo tecnologico che, dallo specifico viveva di specificità, adesso è assorbito in un unico processo dove la macchina non si distingue da un processo umano, e il processo umano rientra anch'esso in una logica tecno-logica.

E' una sorta di esistenzialismo nuovo che nasce e si sviluppa dalle forti interazioni tra uomo e macchina fino a renderli un tutt'uno tramite flussi di energia e informazione.

La coscienza tecnologica pone l'attenzione sul sistema globale e i suoi processi, dove l'uomo è elemento e processo esso stesso e l'interazione uomo-macchina completa.

Lo strumento non c'è più in quanto strumento o media o estensione dei sensi adesso che l'ibridazione è formata e non riconosciamo la differenza tra strumento, macchina, mani, computer, testa, corpo …

Angelo Candiano, Torino 2005/2006 [18]


Bibliografia dei testi citati:

 

Platone, Repubblica, UTET, Torino 1988.

Cesare Pavese, Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, Einaudi, Torino, 1951.

Marshall McLuhan, Quentin Fiore, Il medium è il massaggio, Feltrinelli, Milano, 1967.

Renzo Alzetta e Enrico Santamato, Luce, in Enciclopedia Einaudi, vol. 8, Einaudi, Torino, 1979.

Gianni Vattimo (a cura), Pensiero debole, Feltrinelli, Milano, 1983 .

Hans Georg Gadamer, L'attualità del bello, [1977] Marietti, Genova, 1986.

Pierre Bourdieu, L'ontologie politique de Martin Heidegger, Paris, 1988, [trad. It. Fuhrer della filosofia?. L'ontologia politica di Martin Heidegger, Il Mulino, Bologna, 1989].

Pier Aldo Rovatti, Il declino della luce, Marietti, Genova, 1988.

Aa.Vv. (a cura di Tony Toniato), Intercity Due, catalogo della omonima mostra, Fondazione Bevilacqua-La Masa, Venezia, 1990.

Ilya Prigogine, Le leggi del caos, Roma-Bari, Laterza, 1993.

Domenico Scudero (a cura), Angelo Candiano, Luce della complessità. Con paragrafi di fotosofia, pubblicato in occasione della mostra "Complessità", MLAC-Museo Laboratorio d'Arte Contemporanea, Università La Sapienza, Roma, Gangemi, Roma, 2005.


Note

[1] Ho coniato il termine "fotosofia" nel 1985 per sostenere e "pensare" le mie ricerche, nell'ambito dell'arte contemporanea, con la luce e con la fotografia; verso il superamento del suo linguaggio tradizionale, visto la perdita progressiva di incisività e di significato, con l'avvicendarsi di nuove tecnologie; e verso un avvicinamento della fotografia ad altre discipline sulla base comune della luce, nei suoi concetti come nei suoi aspetti "materiali" di primo assoluto strumento di comunicazione e di informazione.

Il primo testo 'programmatico', "La Fotosofia-primi appunti" è stato pubblicato nel 1990 su Aa.Vv. (a cura di Tony Toniato), Intercity Due, catalogo della mostra omonima, Fondazione Bevilacqua-La Masa, Venezia.

Inoltre questo testo, scritto e redatto appositamente nel 2006 per LaCritica.net, è l'attraversamento di una serie di miei testi ancora inediti, di cui la quarta parte è invece estratta dal libro Domenico Scudero (a cura), Angelo Candiano, Luce della complessità. Con paragrafi di fotosofia, Gangemi, Roma, 2005.

[2] Questo "disinvestimento di senso" dell'oggi applicato sistematicamente al nostro panorama di cose, come alle "montagne" del sapere, può essere considerato una forma elegante e distaccata del nichilismo.

[3] ved. nota successiva per il ragionamento completo.

[4] Per comprendere i valori culturali e metaforici della montagna bisogna far riferimento originariamente al periodo romantico dell'Ottocento; e in particolare alla ripresa successiva di quei valori (tradizionali romantici) negli anni '20 del Novecento in Germania, più consoni al nostro ragionamento: il rifiuto della tecnica ormai già esasperata aveva portato alla riscoperta della natura, e della montagna in particolare, intesa come ritorno al suolo natìo, alla patria (Heimat) e alle tradizioni. Questa era la situazione che aleggiava particolarmente nei dintorni di Monaco, dove gli studenti universitari consideravano la montagna come un "elevatore" di spirito e allo stesso tempo un fattore di distinzione di classe, a conferma esplicita del radicamento dei significati di questa metafora. La citazione è di Sigfried Kracauer a proposito dell'analisi di prima mano e contemporanea al cinema di Arnold Franck, autore che ha sviluppato il tema della montagna, genere di un successo strepitoso in quel periodo storico. Queste problematiche sono state riprese, seppur brevemente, ma in un contesto illuminante di analisi dello zeitgest di quegli anni da Pierre Bourdieu nel libro, da cui ho tratto la citazione, L'ontologie politique de Martin Heidegger, [trad. It. Fuhrer della filosofia?, Il Mulino, Bologna, 1989, pag. 20-21].

[5] Sulla fine della metafora segnalo il testo di Rovatti, Pier Aldo, Il declino della luce, Marietti, 1988; in cui traccia alcuni percorsi del dibattito sulla fine o sulla ripresa della metafora in filosofia in alcuni autori chiave.

[6] Il processo di semiosi deve qui essere visto nella sua interezza delle fasi teorizzate da Charles Morris.

[7] I singoli "resti", non più segni nell'accezione tradizionale del termine, fanno invece affiorare l'accezione greca della parola simbolo, evidenziata da Gadamer in L'attualità del bello, [1977] Marietti, Genova, 1986, e ricordata da Rovatti, in op. cit., pag. 15: il mbolon era il coccio dato all'ospite dall'ospitante affinchè potesse un giorno essere riconosciuto e quindi poter fare ritorno nella casa. Per cui il termine assume tutte le valenze di una dimensione "esperienziale".

Nella eventualità che si applichi un processo di semiosi al singolo segno quindi si avrebbe un significato debole fino alla riduzione formale del segno visto. Piuttosto vista l'accezione del termine quel 'coccio', per noi il resto frantumato di un lavorio secolare, destinato all'ospite affinchè sia riconoscibile nel futuro, potrebbe costituire il testimone personale per l'entrata al futuro, cioè al nuovo mondo, dopo il crollo delle "montagne".

[8] La "trasformazione del fornaio" di Prigogine, è un problema-soluzione di ordine geometrico in cui lo stiramento e l'appiattimento di un quadrato in un rettangolo, che ha per altezza la metà del quadrato, e come base invece il doppio del lato, fa si che 2 punti, prima vicini nel quadrato originale, adesso si troveranno in 2 parti opposte e lontane generando caos e complessità. «Due punti che all'inizio della trasformazione erano molto vicini, si allontanano esponenzialmente e nel futuro si troveranno in regioni differenti» , cit. da Ilya Prigogine, Le leggi del caos, 1993, Roma-Bari, Laterza, pag. 39.

[9] Questa mappa parziale della fotosofia raffigura e segue il processo del testo attraverso la praxy effettiva del mio sistema.

[10] Questi versi fanno parte di una delle ultime poesie, datata 30 marzo 1950 e senza titolo, scritte da Cesare Pavese prima del suo suicidio. E' stata pubblicata nella raccolta Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, Einaudi, Torino, 1951; sospensione e lucidità sembrerebbero contraddistinguere il momento prima dell'atto del suicidio.

[11] Vedi "trasformazione del fornaio" per il dimezzamento progressivo dell'altezza.

[12] La Lichtung, nella sua accezione metaforica, è un concetto usato da Martin Heidegger. Uno studio completo ed esauriente è quello scritto da Leonardo Amoroso e pubblicato nell'antologia, AA. VV., (a cura di Gianni Vattimo e Pier Aldo Rovatti), Il pensiero debole, Feltrinelli, Milano, 1983.

[13] Mi riferisco al cosiddetto "mito della caverna" di Platone nel libro VII della Repubblica, 515e-516, in cui in un dialogo si parla appunto della forte luce che potrebbe accecare la vista se guardata direttamente.

E al mio paragrafo dal titolo "Uscire dal mito della caverna (per la conoscenza del reale)", in Scudero (a cura), Candiano, op. cit.

[14] Capovolgimento dell'aforisma di Kant: "la ragione in noi e il cielo stellato sopra di noi".

[15] E' considerabile rumore di fondo quel disturbo che nel processo della percezione visiva è provocato esempio dalla torbidità dell'aria e della luce riflessa dagli oggetti diversi e altri da quelli che si stanno osservando; nella teoria dell'informazione abbassando il rumore di fondo la quantità di informazione trasportabile dalla luce è proporzionalmente più alta: da Alzetta, Renzo, e Santamato, Enrico, Luce, in Enciclopedia Einaudi, vol. 8, 1979, Einaudi, Torino.

[16] Citazione tratta da Marshall McLuhan, Quentin Fiore, Il medium è il massaggio, Feltrinelli, Milano, 1967.

[17] Al concetto di 'fine della fotografia', a cui personalmente ho dedicato nel tempo diversi contributi teorici, si può fare riferimento al mio testo "La fine della fotografia ovvero il camaleonte catturato" in Scudero (a cura), Candiano, op. cit.

[18] Il presente testo inedito Dalla metafora alla fotosofia è stato concesso in esclusiva a LaCritica.net dall'autore stesso (dicembre 2006); e per quanto riguarda la 4a parte, estratta dal testo Scudero (a cura), Candiano, Luce della complessità. Con paragrafi di fotosofia, Roma, 2005, concessa con permesso della Gangemi Editore.