La Critica

Come ascoltare il suono della quiete

Riflessioni sulla 52. Biennale di Venezia

di Alessandra Cigala
«…I morti non sono mai partiti
sono nell’ombra che rischiara
e nell’ombra che s’addensa.
I morti non sono nella terra:
sono nell’albero che freme,
sono nel bosco che geme,
sono nell’acqua che scorre,
sono nell’acqua che dorme,
sono nella capanna, sono nella folla:
i morti non sono morti…»

Souffles, Birago Diop

Nella fresca oscurità della piccola chiesa di San Gallo, a Venezia, si può assistere ancora per qualche mese a un evento toccante. I tre altari in pietra che ne delimitano lo spazio si trasformano in una soglia: quella che segna il passaggio dal nostro mondo a quello dei morti. E, come è imponderabile e intangibile nella realtà l’attraversamento di questo limitare, ma in effetti basta un niente perché accada, molto simile ci appare l’emersione dalle spesse nebbie dell’aldilà al tangibile mondo dei vivi. Un velo d’acqua segna il passaggio, una barriera esile, come fragile è il confine che ci separa dalla morte. Nella cultura occidentale questa separatezza è accentuata da un sistema cultuale radicato nei secoli, ma altrove, dove l’animismo è ancora vivo e la natura è tutta un palpitare di vita e di respiri, i morti rimangono tra noi. La cultura africana continua a vivere accanto ai suoi morti, ne sente la presenza che ne vivifica continuamente la memoria, la custodisce come un bene prezioso:

«Ascolta le cose
più che gli esseri
senti la voce del fuoco,
la voce dell’acqua.
Ascolta nel vento il cespuglio in singhiozzi:
è il respiro degli avi…»

Da questi versi del poeta senegalese Birago Diop Bill Viola ha tratto ispirazione per la sua opera Ocean Without a Shore, che ha preso forma nella chiesa di San Gallo, come evento collaterale alla 52. Biennale di Venezia.


Bill Viola, Ocean Without a Shore, 2007

I tre portali di pietra diventano schermi su cui si materializzano, inizialmente indistinte, poi via via più precise, in un bianco e nero sgranato, le immagini dei morti che provano a intraprendere il cammino inverso e a ritornare nel mondo dei vivi, passando dall’oscurità alla luce: il muro d’acqua, dapprima invisibile, si frange, la soglia è varcata. Ne emergono diversi, nella concretezza piena e netta dell’alta definizione, di nuovo tangibili, nella luce e nel colore. Dapprima spaesati, attoniti, le loro espressioni cambiano lentamente, man mano che l’emozione di ritrovarsi di qua cede il passo alla consapevolezza della conquistata fisicità, mostrando un’inquietudine e una sofferenza sempre crescenti. Così, come erano venuti, tornano indietro, alla loro dimensione originaria, passando nuovamente attraverso la porta d’acqua. Emergendo, non si incontrano tra loro, ognuno resta prigioniero della propria solitudine. Avvertono con dolore un’oppressione crescente, sentono di non poter più appartenere a questo mondo e tornano nell’oscurità profonda della morte, «oceano senza approdo», nelle parole del mistico sufi Ibn Arabi. Ma l’invisibilità della soglia ci mostra che i due universi sono vicini, contigui, e che noi stessi conviviamo continuamente con l’idea della morte.

In quest’opera intensa ed emozionante Bill Viola riprende un tema a lui caro, quello del «passaggio» e della sospensione tra la vita e la morte, il non essere e la nascita, il sonno e la veglia, indagato in The Passing (1991), come in Nantes Triptych (1992), in The Arc of Ascent (1992), in Stations (1994), in The Messenger (1996). Qui, inoltre, la sua riflessione, pur tenendo presenti i riferimenti alla mistica orientale e occidentale, sempre a lui cari, si arricchisce del lirismo e dell’animistico sentire della cultura africana.

E pertanto, anche per questa densità spirituale, mi sembra l’opera forse più vicina al senso che pervade gran parte della mostra, che alla riflessione sulla morte dedica grande spazio. Viola ci invita però a guardare oltre il pur significativo ma consueto cronachismo di denuncia, nella direzione di una più intensa riflessione esistenziale. Inoltre il riferimento alla cultura africana è quanto mai pertinente: la linea critica che guida l’esposizione, seguendo le varie direzioni dell’«arte al presente», apre piccoli ma significativi squarci sulla vitalità dell’arte africana contemporanea, sottraendola agli stereotipi pauperistici e terzomondistici di tante mostre a tema, evidenziandovi le radici di un sentire profondo e differente, restituendocela infine in tutta la sua allegra, ironica, critica, poetica ricchezza inventiva. Non è un caso che il Leone d’Oro alla carriera sia stato assegnato proprio a un artista africano, Malick Sidibé, grande fotografo e ritrattista.

Nel saggio di apertura in catalogo il direttore della mostra, Robert Storr, dichiara – come già si evince dal titolo Pensa con i sensi. Senti con la mente. L’arte al presente – di aver voluto privilegiare nelle scelte e nell’allestimento la percezione dell’opera nella totalità del suo potere evocativo e delle sue potenzialità riflessive, oltre ogni facile schematismo. In effetti, nell’ordine rigoroso e nel respiro della disposizione delle opere, più politicamente schierate – come si conviene – all’Arsenale, più neutre e museali nel Padiglione Italia ai Giardini, emerge con chiarezza questa linea critica. La pervade, comunque e nonostante tutto, un senso di fine, un’evocazione della morte, nelle sue più diverse sfumature e accezioni: come sintomo di precarietà, voglia di conservare la memoria, monito contro stragi e guerre, gigantesca Vanitas, danza macabra sui luccichii e le apparenze della società contemporanea. Una sorta di basso continuo del nostro sentire presente.

Del resto, anche nelle altre mostre aperte a Venezia in questi mesi, scheletri e memento mori si assommano con inquietante frequenza: ai teschi e al cupo universo farmacologico di Damien Hirst si contrappongono quelli di Cucchi, quelli beffardi di Bertozzi & Casoni dal lungo naso di Pinocchio o l’enorme cranio composto con tante lucidissime stoviglie da Subodh Gupta, che accoglie i visitatori all’ingresso di Palazzo Grassi sul Canal Grande. E sempre in questa chiave va letto il senso globale della densa personale di Jan Fabre - Anthropology of a Planet - a Palazzo Benzon, e quello dell’altra bellissima mostra veneziana, Artempo. Where Time becomes Art a Palazzo Fortuny, una sorta di wunderkammer che ci parla di tempo e di atemporalità come condizione fondante dell’opera d’arte… ma riflettere sul Tempo porta a riflettere sulla Morte, come ci insegna Roland Barthes.

Proprio di Morte, e del vano tentativo di tenere in vita la memoria di chi non c’è più, parla l’opera video di Óscar Muñoz, Proyecto para un Memorial: su diversi schermi allineati un pennello intriso d’acqua dà forma con pochi tratti a volti di uomini e donne su un intonaco grigio e crepato, ma questi, appena evocati, già cominciano a dissolversi, l’acqua evapora e pian piano, come erano emersi, così scompaiono nuovamente nel nulla. Poco importa che i ritratti provengano da necrologi apparsi sui giornali colombiani e che si riferiscano perlopiù a morti violente collegate alla malavita e alla situazione politica di quel paese. Sono i volti di persone morte e la fotografia, come considerava appunto Barthes, è l’unico strumento che possa ricordarci che ognuna di loro «è stata qui» e ora non c’è più. Il pennello di Muñoz ci rammenta che questa perdita è definitiva, la sottrae alla cristallizzazione commemorativa, può solo, con un ultimo atto struggente, ritardarne la scomparsa, offrendola ancora una volta al nostro sguardo.


Óscar Muñoz, Proyecto para un Memorial, 2003 - 2005

La memoria va coltivata con cura, quasi ossessivamente, quando diventa un monito contro l’autodistruzione del genere umano. Questo il senso dei quattromila frottage che Masao Okabe ha realizzato per tentare di conservare l’impronta di qualcosa che non c’è più e che tuttavia è importante ricordare, quella delle pietre del marciapiede della stazione portuale di Hiroshima. Il dramma del ricordo è tuttavia stemperato dal coinvolgimento anche ludico degli spettatori, che sono invitati a interagire con l’opera, forniti di morbida grafite, per realizzare all’interno del Padiglione giapponese, su alcune pietre originali, il proprio frottage da portare via con sé, solleticando il feticismo particolarmente vivo nel pubblico dell’arte, ma contribuendo anche a una riflessione sul senso di ciò che si è fatto (Is There a Future for Our Past? The Dark Face of the Light).

Anche Felix Gonzalez-Torres, presente a Venezia sia nel Padiglione americano sia nella mostra al Padiglione Italia, ma non più vivente, cerca un dialogo con il pubblico. Invitandolo a consumare le caramelle – qui nere liquerizie avvolte nel cellophane – disposte come un tappeto minimalista sul pavimento, il cui peso corrisponde a quello dell’artista o del suo compagno destinato a morire di AIDS come e prima di lui, con semplicità fa metaforicamente dono di sé agli altri e allo stesso tempo invita tutti a riflettere sulla transitorietà dell’esistenza umana.

Come si può poi tralasciare l’invito alla partecipazione alla morte della madre che ci fa Sophie Calle, il cui lavoro da sempre si intreccia con il proprio vissuto? Una fatale coincidenza informa l’artista lo stesso giorno dell’invito a partecipare alla Biennale e dell’ormai prossima scomparsa della madre. Che non potrà essere presente a Venezia. E che invece è qui. Nelle immagini, nelle parole, nel ricordo della figlia. Pas pu saisir la mort, impossibile immortalare la morte. È un tema vicino a quello toccato da Bill Viola, che si interroga sul tempo sospeso del passaggio e la contiguità tra i due stati. Sophie Calle si concentra però nella constatazione che non si può cogliere, fermare la transizione tra la vita e la morte. Impossibile immortalare l’ultimo respiro. Si può solo ricordare. Con le immagini. Con le parole.

Sempre ai Giardini, nel Padiglione francese, l’artista ci dà un ironico ed efficacissimo saggio dei suoi giochi linguistici: in una partitura che ricorda gli Esercizi di stile di Raymond Queneau, trasforma una lettera d’addio da lei ricevuta per e-mail in un testo da commentare e analizzare, in pratica da «tradurre» in un centinaio di modi differenti, tutti affidati a donne dalle diverse competenze – la sessuologa, l’enigmista, il commissario di polizia… Prenez soin de vous, prendetevi cura di voi, è l’invito che ci rivolge all’ingresso dello spazio, usando la stessa frase con cui l’ex-amante si congedava da lei, «abbi cura di te». In fondo un mezzo per elaborare il lutto di un’altra perdita attraverso la costruzione di un’opera che resta, che supera il riferimento esistenziale per raggiungere un’atemporalità duratura e universale.


Sophie Calle, Prenez soin de vous, 2007

«Io morirò» ci dicono i volti dei passanti fermati per le strade di Roma, di Beirut, di Tokyo, facce anonime che si soffermano un momento e pronunciano davanti alla telecamera di Yang Zhengzhong una frase che ci riguarda tutti, individui diversi, che vivono in realtà diverse, tutti accomunati dall’unica certezza che abbiamo: I Will Die.

Altrove il legame affettivo che ci lega ai nostri morti è testimoniato con la partecipe ironia della serie Happy Toghether: New York & the Other World di Jan Christiaan Braun, una serie di fotografie che documentano con precisione l’abitudine newyorkese di decorare le tombe dei propri cari in occasione delle varie feste dell’anno, nell’illusione di continuare a festeggiare insieme ogni ricorrenza. Oppure, sotto il segno inverso del macabro che cita Klinger e le allegorie simboliste, traspare nei luccichii neobarocchi dei ricami su seta di Angelo Filomeno, che evoca i propri genitori scomparsi, scheletri volanti come quelli di Goya, nel cielo, però, di Los Angeles.

Ma la morte può non essere un evento soltanto naturale, un distacco al quale siamo tutti preparati, può arrivare con la violenza, profondamente ingiusta, di guerre, guerriglie, atti di terrorismo e con la quale, tuttavia, siamo condannati sempre di più a convivere.

Appare tra gli stringati elenchi di Ignasi Aballí (Lists), che ritaglia, scansiona e stampa ritagli di giornale che parlano di «muertos», «desaparecidos», «cadáveres» (ma anche «dólares», «inmigrantes»…), ordinatamente allineati in file minimali. Un secco computo numerico che ci inquieta e trasforma le tragedie consumate in un dolore asciutto.

Ci angoscia nelle fotografie che Tomer Ganihar scatta in un ospedale israeliano ai manichini di uomini donne e bambini, i cui corpi straziati che simulano le ferite provocate da guerra e terrorismo vengono usati per l’addestramento dei medici (Hospital Party), ma che, pur nella finzione, strappano comunque al giovane soldato una lacrima (The Tear).

Ci turba quando ci rendiamo conto che il ragazzo che, solitario, palleggia su un terreno abbandonato, in realtà sta giocando con un teschio e gli edifici sullo sfondo sono in rovina perché bombardati: alla fine del video Bouncing Skull di Paolo Canevari una scritta avvisa infatti che ci troviamo a Belgrado, nell’ex-quartier generale delle forze armate serbe, bombardato dalla NATO nel 1999. Alla guerra ci si può abituare, alla violenza adattare fin da giovanissimi e una scena come questa può apparire «normale».

Ma in realtà la guerra cancella la normalità delle nostre esistenze e riesce a trasformare una brulicante città levantina in uno scenario spettrale da cui è scomparsa ogni presenza umana (Beirut 1991 nelle fotografie di Gabriele Basilico). Fino a diventare fredda protagonista in un mondo virtuale in cui una post-umanità di teenager androgini, come su un set pubblicitario molto fashion, dà vita a una battaglia estenuata e senza fine, senza sangue, in cui è impossibile distinguere vittime e carnefici (Last Riot del gruppo AES+F, nel Padiglione russo).

C’è ovviamente anche la denuncia dei disastri attuali: le impronte delle mani di un detenuto mediorientale morto in una cella americana (Left Hand di Jenny Holzer); il maypole, l’albero festoso che celebra la vita, ridotto da Nancy Spero a un lugubre trofeo di morte, dove «sono tutti vittime» (Maypole/Take No Prisoners), tragico monito all’ingresso del Padiglione Italia ai Giardini.


Vanessa Beecroft, VB61 Darfur Still Death! Still Deaf?, 2007

Sono davvero tutti vittime gli abitanti dei villaggi del Darfur, dove non si arresta una delle carneficine più dimenticate della contemporaneità, cui dà di nuovo voce con un’intensa performance Vanessa Beecroft. Evento esterno alla Biennale, ma che ha avuto luogo in uno dei giorni dell’affollatissima vernice, l’8 giugno, alla Pescheria di Rialto, e che è impossibile ignorare sia per la sintonia tematica con tante opere presenti in mostra sia per la forza evocativa in cui etica ed estetica coincidono.

Per tre ore, sotto i tendoni colorati del mercato del pesce in faccia al Canal Grande, su un telo bianco, i corpi accatastati di una trentina di donne sudanesi, dipinti di scuro, sono rimasti immobili, a giacere proni, schizzati e investiti da getti di pittura rossa lanciata o lasciata gocciolare dall’artista, nell’intento dichiarato di citare l’Azionismo viennese come pure i sit in di protesta post-sessantottini, un’azione sacrificale per richiamare l’attenzione di noi tutti su questa tragedia che si consuma nell’indifferenza: VB61 Darfur Still Death! Still Deaf?.

La sordità del mondo ricco agli appelli del Sud del mondo, alle fiumane di derelitti che bussano alle nostre porte o si perdono nel sogno irraggiungibile di una vita migliore viene continuamente rimarcata. La barca che la finlandese Maaria Wirkkala posa nel Padiglione Aalto galleggia su cocci di vetro colorato e le è impossibile attraccare (Vietato lo sbarco); Adel Abdessemed affianca a ogni porta di passaggio nel lungo percorso delle Corderie dell’Arsenale l’insegna al neon con la scritta «EXIL», rammentandoci, con la semplice sostituzione di una consonante, che la via d’uscita per molti non è che la via dell’esilio (Exit).

Anche il fumetto di due artisti africani, Eyoum Nganguè e Faustin Titi, Une éternité à Tanger ci parla di dislocamento e di aspettative deluse, utilizzando il linguaggio classico della bande dessinée con ambientazione africana di tradizione francofona, ma cambiandone la prospettiva: esotismi e spirito colonialista cedono il passo alla frustrazione di chi non riesce a raggiungere la meta eppure non può più tornare indietro.

Un segno forte impresso a questa Biennale è comunque proprio la presenza sempre maggiore di artisti che dall’Africa provengono, ma ce ne parlano con disincanto, sottraendosi al luogo comune e riuscendo spesso a spiazzarci. È vero che il Padiglione africano Check List - Luanda Pop nasca in gran parte dalla collezione privata di un personaggio molto discusso, come è vero che l’affollamento dell’allestimento non giovi alla visione delle opere. Ma forse è giusto che qui non regni l’ordine museale che Storr ha impresso al resto della mostra e che ci si debba fare largo tra il caos visivo e sonoro per avvicinarsi a ogni lavoro. È la prospettiva di chi prova e ripensare se stesso al di là dei clichè, con l’energia e l’inventiva che da almeno un ventennio sono emerse non solo nel contesto dell’arte contemporanea, ma anche in quello della musica, della letteratura, della moda.

Esemplare in questo senso l’intera opera di Yinka Shonibare, che qui presenta How to Blow up Two Heads at Once (Gentlemen), un grottesco duello tra due manichini in abiti settecenteschi che hanno perso entrambi letteralmente la testa. Questo duello, ambientato nel secolo dei Lumi, è una metafora che parla di noi: siamo nel Settecento, quando si consumava tra i lussi la tragica parabola dell’aristocrazia al potere, in nome di libertà e uguaglianza si decretava l’abolizione della schiavitù e sotto la rivoluzione incominciavano a rotolare le prime teste… ma somiglia tanto alla nostra epoca. I suoi manichini, poi, impeccabili nei tagli settecenteschi degli abiti, vestono stoffe tradizionali africane - i wax - o, meglio, di cui gli africani si sono «appropriati», dopo che gli olandesi hanno cominciato a produrle, copiandole dai loro coloni indonesiani, e a venderle in Africa, che le ha adottate e fatte proprie, come simbolo «identitario», per distinguersi dagli europei... un perfetto esempio di globalizzazione ante litteram.

Oppure, guardando gli splendidi tappeti che El Anatsui fa ricadere negli ampi spazi dell’Arsenale o che rivestono le pareti esterne di Palazzo Fortuny, possiamo evocare la preziosità degli ori bizantini, Klimt e la Secessione viennese, salvo poi accorgerci che queste magnifiche tessiture sono ottenute con scarti del nostro tempo: targhette metalliche, pile usate, tappi, frammenti di lattine colorate. Con la stessa arte del riciclo che in Africa permette di costruire giocattoli con i rottami delle armi abbandonate, sovvertendone allegramente la funzione.


El Anatsui, Dusasa I, 2006

La grande energia creativa che consente di ricavare bellezza dagli scarti è figlia di un diverso e più profondo sentire, che rinnova continuamente la propria inventiva pur affondando le radici nella tradizione, in un universo in cui le anime di chi non c’è più continuano a vivere tra le cose e a far sentire la propria voce, come ci ricorda Birago Diop:

«…I morti non sono mai partiti
sono nel seno della donna,
sono nel bambino che piange
e nel tizzone che si infiamma.
I morti non sono nella terra:
sono nel fuoco che si spegne,
sono nelle erbe che piangono,
sono nella roccia che geme,
sono nella foresta, sono nella dimora,
è il respiro degli avi.»

Roma, 12 agosto 2007